Questo però contrasta con il dato storico della rilevanza data da Pitagora e dalla sua Scuola alla Politica come arte della gestione della cosa pubblica da parte di una élite sacralmente fondata. Aulo Gellio, nelle Notti Attiche, mette in rilievo come la Scuola pitagorica annoverasse tra i suoi 'gradi' quello dei πολιτικοί (Liber I, 9, 1-12, intitolato “Quis modus fuerit, quis ordo disciplinae Pythagoricae, quantumque temporis imperatum observatumque sit discendi simul ac tacendi”). Anche in questo i Pitagorici furono precursori occulti della Romanità.
Domenico Bocchini e Giustiniano Lebano, in una delle loro 'paraetimologie', rilevano come l'astensione dalle fave sia da leggersi come astensione dalle fabae, ossia dalle favole, dall'opinione del volgo.
Per Arturo Reghini (L'interdizione pitagorica delle fave in Studi Iniziatici 1948 - 1949 - 1950, ripreso in Arturo Reghini, Paganesimo Pitagorismo Massoneria, a cura dell’Associazione Pitagorica, Società Editrice Mantinea, Furnari [Messina] 1986) tale divieto "prende le mosse dalla constatazione di un “effetto”, forse mentale o spirituale, osservato [...] dopo l’ingestione di fave. Nell’articolo il nostro pitagorico esamina le fonti antiche sull’interdizione e mostra come essa fosse imposta solo ai membri che praticavano la meditazione connessa quindi all’attività più esoterica della scuola e, alla luce di ciò, spiega il motivo di vietare le fave."